Hands On

Le lampade scialitiche neutralizzano le ombre assorbendole in una luce acuta. In sala operatoria è una scelta obbligata per ottimizzare la visibilità sul campo d’azione. Ma non nella vita. Lì, nella realtà quotidiana, la bruttezza del male la si preferisce occultare senza neppure cercare un colpevole, nessuno la vuole vedere o ascoltare. La sofferenza è contagiosa. Fa paura. Allora, se non la chiami per nome, forse la malattia può dissolversi senza sfiorarci. Se non la guardi, non ti appartiene. Eppure c’è. Rimane nascosta. Esiste. Nidifica nel corpo di chi all’improvviso è costretto ad accoglierla senza alcun invito a conviverci. Una massa che schiaccia la nostra esistenza nutrendo la paura e, al contempo, la necessità del cambiamento. Adattamento a volte.
Quello del corpo, dello spirito, della vita nella sua ordinarietà.
Da questa parte del mondo, nel tempo, ci siamo abituati a medicalizzare la morte e la malattia. Argomenti tabù fino all’estremo possibile. Fino a quando rimane facile credere che non ci riguardino. È questa la scorciatoia per affermare la natura divina dell’uomo? La vita non è breve, come racconta il lamento, ma che sia finita è una certezza. Una verità spesso dimenticata nel mentre ci si affanna a celebrare il proprio essere al mondo attraverso cose, in realtà, di poco conto.
In linea con tale visione, Hands-on, progetto fotografico realizzato da Mario Spada grazie alla disponibilità e collaborazione della Fondazione Giovanni Pascale di Napoli, assume il senso di una riflessione aperta circa la relazione che intercorre tra essere umano e malattia, e sulla possibilità di rendere quest’ultima uno strumento di affondo nell’essenza della vita stessa.
Soffermandosi nello specifico sulle patologie di carattere oncologico, l’intento principale che si desidera raggiungere è di indurre l’uomo ad abbandonare illusioni, abitudini e paure, accogliendo la fragilità di un’esistenza che non può essere giocata interamente sulle certezze.
Provando ad esercitare, se non il coraggio di accettare, almeno quello di guardare la vita accadere anche nei suoi coni d’ombra.

Quel buio che avvolge sistematicamente ogni scatto, enfatizzato in quanto elemento espressivo utile a enfatizzare l’incomunicabilità del cancro diventa parte integrante del processo liberatorio con cui l’autore porta in scena una realtà volutamente accessibile a pochi. La esplora internamente, restituendola all’esterno immersa in un equilibrio sospeso tra l’oggettività esplicita di un intervento chirurgico e la ricerca di un coinvolgimento intimo evocativo di una dimensione relazionale che, seppure intangibile, esiste al di là di ogni scienza.
Un’intimità corrispondente in superficie all’affidarsi dell’uomo al sapere medico, mentre, scendendo in profondità, incontra il rapporto tra il corpo e le mani che lo curano, tra la vita di chi entra in sala operatoria e quella degli specialisti chiamati ad intervenire. Persone, oltre che medici, in cui la responsabilità professionale coesiste con la sensibilità della natura umana, qui stimolata dal sentire una vita dilatarsi, accorciarsi, annodarsi e sciogliersi tra le mani.
Ed è proprio la muta eloquenza delle mani a diventare protagonista della scena, costruendo con il loro dinamismo una bellezza estemporanea e inaspettata, fatta di leggerezza, luce e divenire; cristallizzata in uno scatto per essere consegnata agli occhi di chi guarda.
Rese al massimo della loro espressività narrativa attraverso la struttura descrittiva della fotografia still life, le mani creano composizioni in cui dettagli e visione d’insieme assumono lo stesso rilievo, recuperando la valenza simbolica della pittura fiamminga e la funzione di volti, di rimando alla pittura caravaggesca, capaci di esprimere una narrazione plurale nella quale si intrecciano la ritualità esatta di un’operazione reiterata con pazienza e l’incertezza propria della vita in trasformazione.

Testo di Anna Gallo